Resilienza: una prova ultracentenaria
Durante il XIX secolo la ferrovia ebbe uno sviluppo importante e rapido sia in Europa che negli Stati Uniti.
Tutto questo comportò la costruzione di locomotive, tunnel, ponti, stazioni e molte altre strutture.
Parallelamente a questo sviluppo, cominciarono a manifestarsi tra il 1840 e il 1860 delle rotture inaspettate: gran parte di esse avvennero senza alcun avvertimento perché dovute a fratture fragili.
Cominciarono ad essere indagate queste rotture e si appurò che potevano avvenire anche quando le sollecitazioni erano inferiori a quelle critiche. Tutto ciò avveniva in presenza di carichi ciclici casuali o periodici. Fu scoperto così il fenomeno della fatica.
Nacque pertanto l’esigenza di trovare una prova in grado di prevedere il comportamento dei materiali metallici quando sottoposti a sollecitazione cicliche. Ci vollero diversi anni e diverse tappe per arrivare a definire una prova condivisa da tutti. Vediamone alcune.
Nel 1857 il capitano T.J. Rodman ideò la prima drop-weight machine per migliorare le performance degli acciai destinati alle armi.
Nel 1892 Le Chatelier introdusse l’utilizzo di provini intagliati per la prova da eseguire con la drop-weight machine. Egli scoprì che la presenza dell’intaglio causava fratture fragili su acciai che mostravano frattura duttile se non intagliati.
S. Bent Russel nel 1898 ideò una nuova macchina in cui utilizzava un pendolo a forma di martello. Lo scopo di questa macchina era di misurare l’energia assorbita dal campione da testare calcolando la differenza tra l’altezza del pendolo prima e dopo la frattura. Questo pendolo aveva dimensioni ragguardevoli ed era in grado di fratturare campioni a sezione piena.
Nello stesso periodo, 1901, in Francia, George A. A. Charpy, utilizzò un pendolo molto simile a quello utilizzato oggi, dove però impiegava barre intagliate. Il suo scopo era quello di standardizzare la prova in modo da poter creare un database con dati uniformi.
A partire da questo momento i metallurgisti si concentrarono nel trovare una standardizzazione della prova. Furono impiegati soprattutto due provini:
10 x 10 mm di sezione con lunghezza di 53 mm e con un intaglio profondo da 2 a 5 mm e con raggio 1 mm.
Un provino con le stesse proporzioni di quello precedente ma con le dimensioni moltiplicate per tre.
Risultò vincente il provino più piccolo perché permetteva l’utilizzo di macchine più piccole e più economiche.
Le prove eseguite con provini standardizzati portarono velocemente i primi risultati importanti. Durante il congresso IATM (1912) un produttore di acciaio presentò un report che mostrava che grazie al miglioramento dato dai test di resilienza era riuscito a ridurre di venti volte il numero di parti scartate a causa del comportamento fragile.
Nel 1922 l’ASTM organizzò un simposio dedicato alla prova di resilienza e l’anno seguente fu nominata una sottocommissione ASTM avente lo scopo di preparare uno standard per la prova di resilienza.
Passarono ben 10 anni prima che fosse pubblicata l’ASTM E23-33T “Tentative Method of Impact Testing of Metallic Materials”, dove si definì l’utilizzo del pendolo, sia Charpy che Izod, del provino con intaglio a V e del sistema di unità di misura inglese.
Questa norma è tutt’ora esistente ed è arrivata alla revisione del 2018.
Nacquero delle discussioni riguardo al raggio che doveva avere il coltello della mazza, che in UK era di 0.57 mm mentre in Francia di 2 mm.
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Nel 1940 fu deciso di adottare un raggio di 8 mm che venne ufficializzato nell’ASTM E23-41, insieme all’intaglio a U e all’utilizzo del sistema metrico decimale.
Nonostante tutti questi sforzi la resilienza non era stata ancora inclusa nelle specifiche e nelle normative di costruzione.
Tra il 1942 e il 1946 ci fu però un numero importante di rotture di navi Liberty. Fu indagato il motivo e si scoprì una relazione tra la resilienza e la temperatura di transizione, relazione che non fu trovata con la prova di trazione, l’analisi chimica e la microstruttura. Si stabilì che il valore minimo della prova di resilienza fosse di 15 ft-lb.
Da qui fino ai giorni nostri si iniziò a tenere conto durante la progettazione anche del valore della resilienza, sia in termini di energia assorbita che di temperatura di transizione e grazie a questo si sono evitati incidenti e danni che avrebbero potuto causare morti e danni economici ingenti.